Benessere in alta quota: progetti Highcare per affrontare la montagna in sicurezza
“Highcare Projects. 11 anni di ricerca in alta quota”.
In un volume raccolti i dati scientifici di studi effettuati durante spedizioni
in alta quota dai gruppi di ricerca dell’Istituto Auxologico Italiano e
dell’Università di Milano Bicocca, dirette e coordinate dal professor
Gianfranco Parati.
Milano, 13 maggio
2015 - L’aumento della popolarità degli sport estremi e la facilità di rapidi spostamenti
dei tempi attuali, hanno fatto sì che sempre
più persone si espongano a quote anche molto elevate, incorrendo in problemi di salute correlati a tale
condizione ambientale. Ma le patologie d’alta quota non interessano solo
chi, professionista o sportivo, raggiunge le vette più alte del mondo. Milioni di persone, ogni anno, si recano in
alta quota (oltre i 2.500
metri) per
vacanza o semplice escursionismo o per
motivi di lavoro, con la scarsa
consapevolezza delle conseguenze che l’altitudine può esercitare sull’organismo.
Con l’aumento dell’altitudine, infatti, si riduce la pressione atmosferica e, di conseguenza, diminuisce la
pressione parziale di ossigeno nell’aria, dell’umidità e della temperatura. Si
viene, cioè, a creare un ambiente ‘ipossico’
in cui la tolleranza all’esercizio fisico è ridotta, ed è comune la comparsa di una sintomatologia nota come
“mal di montagna” (cefalea, nausea, affaticabilità e disturbi del sonno), che
esprime una difficoltà di adattamento
dell’organismo all’alta quota, in seguito ad una ascesa rapida, in soggetti
non acclimatati. Il male acuto di montagna è una condizione patologica benigna,
il cui decorso è generalmente favorevole ma, talvolta, può evolvere in forme più gravi, soprattutto in chi è affetto da
patologie cardiocircolatorie (come, ad esempio, ipertensione o problemi della
conduzione cardiaca).
Data l’incidenza relativamente alta delle malattie d’alta
quota e la difficoltà o, a volte, impossibilità di fornire assistenza medica in
vetta, in caso di emergenza, gli
appassionati di montagna dovrebbero conoscerne i rischi, saperne comprendere i sintomi ed essere
informati sui principi basilari del trattamento e della prevenzione di queste
sindromi.
Ma affrontare la
montagna in sicurezza si può. Recenti studi hanno, infatti, dimostrato che anche soggetti
con patologie cardiovascolari, se adeguatamente trattati, possono esporsi con
tranquillità a quote moderatamente alte, per brevi periodi di tempo.
Questo, in estrema sintesi il messaggio emerso nel corso dell’incontro
di presentazione del libro: “Highcare
Projects. 11 anni di ricerca in alta quota”, svoltasi oggi a Milano, che
raccoglie i dati scientifici di ricerche dirette e coordinate dal Professor Gianfranco Parati, Ordinario
di Medicina Cardiovascolare all’Università di Milano Bicocca e Direttore
dell’Unità complessa di cardiologia del Dipartimento di Scienze
Cardiovascolari, Neurologiche e Metaboliche dell’Ospedale San Luca, IRCCS,
Istituto Auxologico Italiano di Milano, durante una serie di spedizioni effettuate sulle Alpi, sull’Himalaya e sulle Ande
dai gruppi di ricerca dell’Istituto
Auxologico Italiano e dell’Università di Milano Bicocca, nell’ambito dei Progetti Highcare (HIGH altitude
CArdiovascular REsearch).
Dal volume, realizzato con il contributo non condizionato di Bayer,
emergono informazioni preziose non
solo sulla fisiologia e fisiopatologia dell’adattamento dell’organismo all’alta
quota, ma anche su aspetti e
implicazioni diagnostiche e terapeutiche che tali adattamenti comportano.
“Highcare è un
progetto scientifico multidisciplinare – ha dichiarato il Professor
Gianfranco Parati – i cui numerosi ed originali dati raccolti hanno contribuito
non solo ad approfondire le nostre
conoscenze sulle risposte dell’organismo umano, quando esposto ad ipossia
ipobarica dell’alta quota, ma anche a comprendere
meglio gli effetti di una ridotta disponibilità di ossigeno, che spesso
caratterizza pazienti con patologie croniche quali scompenso cardiaco, broncopneumopatia
cronica ostruttiva, obesità grave associata ad insufficienza respiratoria, o
apnee nel sonno. Gli studi realizzati – continua il Professor Parati - hanno
anche valutato l’efficacia di una serie
di interventi terapeutici farmacologici o non, nel contrastare gli effetti cardiovascolari e sistemici dell’ipossia
ipobarica, offrendo interessanti indicazioni non solo per la terapia del male
acuto o cronico di montagna ma anche per
la terapia di pazienti con patologie croniche, caratterizzate da una
ridotta disponibilità di ossigeno per organi e tessuti”.
Sono stati condotti numerosi studi sulle alterazioni da
altitudine elevata, molto è stato compreso, ma diversi meccanismi del processo di adattamento all’alta quota,
siano essi i fattori di un normale adeguamento a condizioni ambientali
“sfavorevoli” o l’evoluzione verso uno stato patologico, restano ancora da chiarire.
Da qui l’idea di
trovare un modello scientifico che permettesse di studiare in modo specifico gli effetti di una
insufficiente disponibilità di ossigeno, utilizzando una condizione offerta dalla natura, dove tale scarsa
disponibilità si materializza senza la presenza di malattie associate: l’esposizione all’alta quota.
Così ha preso forma
l’idea della ricerca medica dei Progetti Highcare, con lo scopo di indagare
gli effetti cardiovascolari e sistemici
di una esposizione alla bassa pressione atmosferica, tipica delle vette, e
alla conseguente ipossia ipobarica. E questo sia su volontari sani, sia
su pazienti già affetti da condizioni croniche, come l’ipertensione arteriosa,
con l’obiettivo di tradurre queste conoscenze in informazioni di utilità clinica.
Da qui sono nati gli
studi Highcare Alps,
condotti tra il 2004 e il 2010, su
volontari sani, sul massiccio del Monte Rosa, a cui ha fatto seguito lo studio Highcare Himalaya, realizzato nel 2008, sempre su volontari sani,
sulle pendici del Monte Everest. Nel
2012, sulle Ande peruviane, con Highcare
Andes le ricerche sono state estese agli effetti dell’alta quota in pazienti che già soffrono di ipertensione
arteriosa a livello del mare, per indagare quale fosse la reazione del loro apparato cardiovascolare quando
esposti ad ipossia ipobarica, simulando quanto avviene anche ai soggetti
ipertesi che si recano in alta quota per svago o per lavoro.
“In Highcare Alps 2006,
primo studio farmacologico –
dichiara il Professor Parati - è stato dimostrato che l’utilizzo di beta bloccanti (nel caso specifico carvedilolo o
nebivololo) può contrastare l’incremento di pressione arteriosa che si verifica
ad altitudini elevate. Dato, questo, che può risultare utile nella gestione di
pazienti in terapia cronica con beta bloccanti che programmino un soggiorno in
alta quota, in particolare in pazienti affetti da insufficienza cardiaca o
ipertensione, condizioni nelle quali l’uso di carvedilolo o nebivololo è
raccomandato”. Da questo studio è emersa una chiara indicazione a favorire i
betabloccanti selettivi per i recettori beta 1 adrenergici.
A fronte dei dati raccolti in Highcare Alps 2008, che prevedeva un’esposizione a quote molto
elevate raggiunte via trekking con ascesa graduale, è emersa la necessità con Highcare Alps 2010 di valutare in modo più intensivo gli effetti
di una esposizione molto rapida a quote molto elevate, condizione comune a numerose persone che, per motivi di svago o
per lavoro, si espongono in modo acuto all’alta quota, senza un precedente
periodo di acclimatazione, e per brevi periodi. “Tra i farmaci cardine nella prevenzione e nel trattamento del “mal di
montagna” – spiega Parati - rientra un farmaco diuretico, l’acetazolamide. I dati innovativi del nostro studio
riguardano il ruolo di questo farmaco
sulla pressione nelle 24 ore, suggerendo il suo impiego in alta quota, non
solo per la profilassi e/o il trattamento del mal di montagna, ma anche per
prevenire un eccessivo rialzo pressorio in pazienti ipertesi, soprattutto
quelli ad alto rischio”.
In Highcare Himalaya l’obiettivo
era quello di studiare, su volontari
sani, le modificazioni della pressione
arteriosa durante l’ascesa dal livello del mare verso quote sempre più alte,
e capire se la capacità di alcuni farmaci antipertensivi (in particolare
antagonisti del recettore dell’angiotensina) di ridurre la pressione arteriosa veniva
mantenuta in queste condizioni. I dati raccolti hanno mostrato che l’alta quota può interferire con gli
effetti dei farmaci cardiologici, in questo caso un bloccante del recettore
dell’angiotensina (telmisartan), e quindi
comprometterne l’efficacia. L’effetto
ipotensivo del farmaco osservato a
livello del mare si è mantenuto a 3.400 m, (e cioè a quote raggiungibili
anche da escursionisti), ma è scomparso
quando è stata raggiunta l’altitudine di 5.400 m.
In Highcare Andes,
invece, è stato realizzato un trial
randomizzato di confronto per valutare
gli effetti di combinazione di due farmaci antipertensivi (un bloccante del
recettore dell’angiotensina, il telmisartan, e un calcio-antagonista a lunga
durata d’azione, la nifedipina GITS)
rispetto a placebo in soggetti
ipertesi, esposti a quote
moderatamente elevate. Sulla base degli studi precedenti, scopo di Highcare
Andes è stato quello di estendere tali
osservazioni anche a pazienti ipertesi residenti a bassa quota, nei quali la
risposta pressoria a quote elevate non è mai stata adeguatamente documentata.
Lo studio ha, innanzitutto, dimostrato che nel paziente già
iperteso la risposta pressoria alla quota è particolarmente elevata. Abbiamo,
poi, studiato gli effetti del trattamento combinato di associazione telmisartan
più nifedipina GITS, utilizzato
ad una quota di 3.200 metri,
simile alla più bassa raggiunta nella spedizione Highcare Himalaya. In questo
contesto, il trattamento in studio ha
completamente mantenuto la sua efficacia, ed è stato ben tollerato.
Infatti, nonostante nel gruppo in trattamento attivo l’aumento pressorio in
alta quota fosse soltanto lievemente meno pronunciato che nel gruppo placebo,
nei soggetti trattati la pressione in alta quota era più bassa di quella
osservata a livello del mare, prima dell’inizio della terapia.
“I nostri risultati – dichiara Parati - possono avere importanti implicazioni cliniche
soprattutto in considerazione del fatto che brevi periodi di esposizione all’alta quota sono frequentemente
associati con esercizio fisico, come accade ad esempio a lavoratori,
sciatori, alpinisti e scalatori. In caso
di ipertensione arteriosa preesistente l’effetto combinato dell’ipossia da alta
quota e dell’esercizio fisico può portare a importanti e potenzialmente
pericolosi incrementi nei valori della pressione. In questo contesto, la
terapia di combinazione con telmisartan e nifedipina GITS sembra essere un’opzione terapeutica sicura ed
efficace, avendo mostrato anche l’addizionale beneficio di incrementare la
saturazione dell’ossigeno (dovuta all’azione di nifedipina GITS)”.
“Alla luce di questi dati – commenta il Professor Giuseppe Mancia, Professore Emerito dell’Università
Milano-Bicocca – mi sembra utile sottolineare lo straordinario risultato scientifico che tali spedizioni hanno
conseguito, che è anche legato a due fattori: al loro succedersi regolare nel tempo, il che ha consentito di esaminare in
modo rigorosamente scientifico i parametri emersi sulla base dell’esperienza
precedente, nonché ad una metodologia che
ha permesso di raccogliere informazioni preziose non solo sulla fisiologia e
sulla fisiopatologia dell’adattamento dell’organismo all’alta quota, ma anche
su aspetti ed implicazioni diagnostiche e terapeutiche che tali adattamenti
comportano”.
“Gli studi Highcare condotti negli ultimi anni hanno fatto compiere alla cosiddetta ‘medicina di montagna’- sempre più
importante alla luce della riscoperta delle alte vette da parte di una
crescente percentuale di persone ‘senior’ spesso affetta da patologie cardiache
o respiratorie talvolta misconosciute o sottovalutate – un vero progresso attraverso l’organizzazione di spedizioni di alto
carattere clinico scientifico, trasferendovi la moderna tecnologia
diagnostica e di ricerca – conclude il Dottor
Luigi Festi, Presidente della Commissione Medica del CAI – Club Alpino
Italiano-Milano – Questo con l’obiettivo di rendere la ‘medicina di montagna’ patrimonio di tutti, portandola ad un
altissimo livello di specializzazione, permettendo,
così una frequentazione dell’ambiente alpino più sicura e consapevole.”
E il Progetto Highcare continua con altri studi, attualmente
in fase di completamento. Si tratta di Highcare
Alps – Mont Blanc, che sta affrontando un aspetto di grande rilevanza sia
per la medicina clinica sia per quella del lavoro: ovvero quali siano le
modificazioni cardiovascolari e neurologiche che si possono verificare in
soggetti che svolgono attività
lavorative per lunghi periodi in alta quota. Nel caso specifico, oggetto della
valutazione sono i lavoratori delle nuova funivia del Monte Bianco.
Highcare Alps Sestriere
si pone, invece,
l’obiettivo di studiare l’impatto dell’esposizione a quote inferiori a 2.500,
di cui, al momento non sono disponibili dati, a cui, paradossalmente si espone
il maggior numero di persone, sia per la facilità di accesso, sia perché queste
quote “intermedie” sono percepite “non pericolose” anche per i soggetti più
delicati per età o per patologie preesistenti. La criticità, tuttavia, consiste
nel fatto che, in questi casi, l’esposizione avviene quasi sempre senza
acclimatazione e per brevi periodi, caratterizzati spesso da un’attività fisica
inusuale rispetto alla vita quotidiana. Sono, inoltre, quote queste,
corrispondenti a quelle a cui si è esposti durante un viaggio in aeroplano.
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