SIPPS propone l’infermiere di comunità per la Pediatria: 2 ogni 100mila abitanti
Venturelli: Avrà competenze per fare squadra con servizi
territorio a contrasto fragilità
Roma, 12 febbraio - “Due infermieri di comunità ogni 100.000
abitanti interamente dedicati alla pediatria”, che ricostituiscano un
collegamento essenziale tra il bambino nei suoi primi 1.000 giorni, il suo
nucleo, il pediatra di famiglia e tutti quei “servizi territoriali predisposti
che cambiano da Comune a Comune. Un servizio che generi un’alleanza di più
figure professionali per la risoluzione dei problemi della fragilità
familiare”. Ecco la nuova proposta targata Società Italiana di Pediatria
Preventiva e Sociale (SIPPS), che mira a “raggiungere e intercettare l'intero
universo della diade mamma-bambino attraverso il monitoraggio dei nuovi nati
fin dalla loro iscrizione all’anagrafe comunale”. A illustrarla è Leo
Venturelli, pediatra e responsabile SIPPS per l’Educazione alla Salute e per la
Comunicazione, anche Garante dei diritti dell'Infanzia e dell'Adolescenza per
il comune di Bergamo.
L’iniziativa prende vita in un momento “tragico per l’Italia,
dove la pandemia ha generato nuovi tipi di povertà. Non soltanto una povertà
economica, ma anche carente di relazioni positive in famiglia con il rischio
che il nuovo nato abbia genitori meno attenti ai suoi problemi di crescita
globale”. Perciò la SIPPS, a contrasto dell’attuale inasprimento delle
fragilità familiari, propone di ripartire dai fatidici “1.000 giorni in cui si
sviluppa l’organismo di un bambino, perché è in quella fase- spiega Venturelli-
che il suo cervello è ancora plasmabile e ciò che può rappresentare un danno
può risolversi più facilmente in un beneficio, se si opera un intervento nel
momento e nelle modalità più adatte”. Una figura poliedrica, “un case manager
tanto con competenze sanitarie quanto sociali” che, proprio seguendo il modello
sanitario britannico ‘dell’home visiting’, abbia 5 capacità fondamentali:
“l’ascolto, l’osservazione, il porre domande al genitore, l’informare sui
servizi disponibili sul territorio e, infine, il consigliare buone prassi
perseguibili in termini di genitorialità efficace e responsabile”. Le
situazioni che la figura professionale potrebbe trovarsi di fronte durante
visite domiciliari, sono diverse: dalla famiglia accogliente e senza rischi di
tipo sociale, alle “mamme con tratti di trascuratezza, difficoltà
nell’allattamento, problemi di depressione, a quelle con grave disagio economico
e sociale. Si pensi per esempio a mamme single o straniere non ancora
integrate”. Le opzioni conseguenti spaziano da un intervento universalistico di
educazione sanitaria, a possibili azioni selettive in base al problema emerso,
come affidamento al servizio ostetrico del consultorio familiare, oppure
all’invio presso servizi di tipo psicologico dei centri famiglia, fino alla più
“drammatica situazione familiare che richiede un supporto dei servizi sociali
comunali”.
Il modello dell’infermiere di comunità, tra l’altro, ha persino
matrice governativa. Il pediatra ricorda, infatti, come nel Decreto Rilancio
del maggio scorso si prevedesse “la presenza di 8 infermieri di comunità ogni
50.000 persone. Il che significa- riflette- che in comune di 100.000 abitanti
potrei avere fino a 16 infermieri di comunità”. Da qui l’idea di destinarne
alcuni, nello specifico, “non soltanto alla fragilità senile legata alla
medicina territoriale, quant’anche alle problematiche del bambino con un forte
legame alla pediatria di famiglia”. Il momento “è opportuno e potrebbe essere
propizio- ribadisce- soprattutto in vista del Recovery Fund che può aprire la
strada a fondi e interventi di sostegno alle famiglie, che vanno programmati e
precisati proprio in questa fase”. Una proposta che rappresenterebbe anche un
passo in avanti nel contrastare la denatalità italiana: “Una famiglia che si
sente supportata dallo Stato, dagli specialisti e dalle associazioni di
riferimento- aggiunge il pediatra- è una famiglia che può decidere di fare
figli, con meno paura del futuro”.
Il ruolo dell’infermiere domiciliare deve poi connettersi,
“tramite report e analisi degli indicatori di fragilità, al pediatra che
prenderà in carico la famiglia e il bambino, attraverso le visite filtro e i
bilanci di salute”, elementi centrali per svolgere “una medicina che non sia di
attesa bensì di iniziativa”. L’input dell’infermiere, in questo senso,
faciliterà “il passaggio di consegne e la gestione sanitaria e sociale del
bambino, nella sua crescita, alimentazione e nel suo sviluppo neuromotorio ed
educativo”. Sicuramente, un progetto di questo tipo deve partire “dalla
mappatura delle reti di servizi sul territorio: le aziende sanitarie, i
pediatri, i comuni, le istituzioni- enumera l’esperto- e non solo”. I gruppi di
lavoro devono poter contare sui “servizi aggiuntivi di comunità, come l’SOS
Mamme, l’assistenza no profit, il terzo settore e il volontariato. Gli esempi
non mancano: le stesse parrocchie o la Caritas in questo periodo hanno dato un
grosso contributo a tutte le iniziative di contrasto alla fragilità familiare,
affiancandosi all’istituzione pubblica”.
Da non
dimenticare, infine, anche il ruolo dei Punti nascita, delle Patologie
neonatali e dei Centri di neuropsichiatria infantile, “ultimamente lasciati
piuttosto a loro stessi, con reparti pieni, ora come ora, di adolescenti con
patologie depressive e da autolesionismo”. Poli che, nella proposta Sipps,
devono entrare a buon diritto nella mappatura delle strutture deputate a farsi
carico dei bambini più a rischio, come quelli prematuri e quelli con disabilità
neuroevolutive”. Tutti gli attori degli interventi sopramenzionati devono
arrivare a unire le loro forze in un gioco di squadra per dare tutto il
sostegno possibile a creare “una comunità accogliente dove siano ridotte al
minimo le diseguaglianze e vengano valorizzate le azioni protettive a tutelare
il bambino nel suo sviluppo completo sia fisico che psicologico e relazionale,
non trascurando l’alimentazione, l’ambiente, la sicurezza e una genitorialità
responsiva”.
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